L’evoluzione del mercato alberghiero in Italia

Positivo e stabile: questo lo scenario 2019 per l’hôtellerie in Italia. “L’industria alberghiera sta vivendo un periodo prospero – ha spiegato di recente Guido Castellini, advisor del settore – ma la brand penetration in Italia è ancora bassa, parliamo di un 5% sul numero degli hotel e di un 15% per le camere, contro la Spagna che registra rispettivamente un 34 e 56%”. Secondo le rilevazioni di PKF hotelexperts, però, le catene alberghiere sono al primo posto per progressione, con un +6% di crescita media annua. Il brand non ha un significato univoco “e il tasso di penetrazione – commenta Castellini – andrebbe visto non soltanto come numerica, ma in base alle formule di gestione proposte, da quelle hard a quelle più soft”. Per il manager il salto di qualità nella gestione è rappresentato dalla creazione di uno standard di catena che elevi la qualità del servizio erogato per un parco ricettivo come quello italiano con una media di 35 camere e gestito ancora in larga parte dai proprietari.

La distribuzione
“In Italia – ricorda Castellini – c’è stata la necessità di affiliarsi per aumentare la capacità distributiva. Uno dei mali del comparto italiano è quello di non avere una grande catena di stampo internazionale. Ora ci sono dei piccoli operatori che si stanno consolidan-do”, ammette, facendo l’esem- pio, tra gli altri, di Bluserena, gruppo verticale che gestisce e commercializza resort in Sud Italia. Oggi, però, ci troviamo ad avere un mercato ancora molto frammentato “e il mercato estero – con i suoi marchi internazionali-  viene da noi guidato da una logica opportunistica e guarda praticamente solo agli asset presenti nelle città (su 58 transazioni in un anno il 78% ha riguardato le città)”.
Da qui la fatidica domanda: come evolverà il mercato Italia? “Quel che è certo – dichia-ra Castellini – è che crescerà soltanto se cresce tutto ciò che gira attorno”.
Per superare il difetto della stagionalità corta che porta a massimizzare i ricavi in periodi ristretti, infatti, sarebbe utile l’opera di Dmc (Destination management company), che deve garantire l’offerta di servizi fuori stagione, altrimenti il rischio è di depotenziare il prodotto. Da qui anche l’ascolto delle nuove esigenze che portano allo sviluppo di concept come gli ostelli, gli hotel ibridi, i serviced apartment, gli studentati, con “più spazio alle aree comuni, che diventano spazi social” e, in sostanza, modelli di business che partono dal mercato.

L’attenzione degli investitori
Per James Chappell, global business director di Horwath Htl, non c’è una particolare location che domina la scelta per quanto riguarda l’attrazione di investimenti: “C’è una distribuzione abbastanza regolare di transazioni in tutta Italia. Milano è stata la piazza più attiva – sottolinea – ma ci sono stati passaggi di proprietà a Catania, Palermo, Venezia e Portofino. Roma è stata una delle città più tranquille”. Sfata poi il mito degli investitori istituzionali pigliatutto: “Se mi chiede se sono loro i più attivi – argomenta – dico che non ce ne sono così tanti come può pensare, in effetti sono relativamente pochi. Una gran quantità di attività è stata svolta da marchi proprietari e operatori come Lvmh (Belmond) e B&B”. Le potenzialità maggiori in Italia, secondo Chappell, si concentrano nei centri cittadini delle destinazioni alternative, “in quanto le piazze principali sono diventate troppo costose o complicate da gestire”.

I margini di miglioramento
E’ migliorata la gestione delle operazioni immobiliari-alberghiere in Italia, “ma ci sono ancora margini di miglioramento – avverte -. Gli investitori hanno necessità di informazioni chiare e trasparenza, ed è ancora complicato averle. Report come quello che produciamo sulle catene e gli alberghi italiani aiutano certamente molto perché fanno luce su mercati specifici”. Chappell sottolinea anche che il lavoro intrapreso da una serie di organizzazioni governative e industriali per rendere il mercato più semplice da gestire “è di grande aiuto, ma ci vuole un po’ di tempo prima che gli effetti funzionino davvero”. Il problema principale dell’Italia è che i prodotti non sono “market ready”, come li definisce il manager, ossia “pronti per il mercato”, non rispecchiano quindi il modo in cui gli investitori istituzionali sono abituati a lavorare.
“I seller (venditori) – ammette – devono fare di più per facilitare l’acquisto da parte degli investitori. Sono sicuro che c’è una domanda inespressa ancora da esaudire”.
Per quanto riguarda il Roi (return on investments) “in Italia è buono, probabilmente più alto che in Francia o in Germania, perché i rischi percepiti sono mag- giori”. Sull’orientamento degli investitori, commenta: “Dipende molto da chi compra. I fondi di private equity, ad esempio, è più probabile che mettano i soldi per operazioni di turnaround, come dimostra Starwood Capital con gli hotel nel Regno Unito. Istituzioni e fondi, tuttavia, non sono interessati a questo – conclude -, vogliono asset già pronti o portafogli con una gestione professionale che fornisca loro rendimenti immediati e costanti”.        

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